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Politically correct e inclusività linguistica

Quando la scrittura incontra la tolleranza


Negli ultimi anni, il grado di attenzione nei confronti dell'inclusività in ogni sua forma è (fortunatamente) aumentato. Ciò comprende non solo l’eliminazione di barriere culturali e l’apertura verso tutto ciò che finora era stato considerato fuori dagli schemi, ma anche un rinnovato senso di responsabilità verso le espressioni utilizzate per esprimerci, al fine di non urtare la sensibilità di nessuna categoria.


Sto parlando del concetto del “politicamente corretto”, altresì conosciuto come politically correct. Ma cos’è esattamente e come si manifesta nel nostro linguaggio? Quali sono le sfide che si trovano ad affrontare i linguisti professionisti in merito a questo argomento?




Il politicamente corretto

Secondo Treccani, il politically correct


“[…] designa un orientamento ideologico e culturale di estremo rispetto verso tutti, nel quale cioè si evita ogni potenziale offesa verso determinate categorie di persone. Secondo tale orientamento, le opinioni che si esprimono devono apparire esenti, nella forma linguistica e nella sostanza, da pregiudizi razziali, etnici, religiosi, di genere, di età, di orientamento sessuale o relativi a disabilità fisiche o psichiche della persona.”


La regina delle enciclopedie ci parla di rispetto. Quindi, quale sarebbe il problema? In sostanza, nessuno. La vera riflessione consiste nel fatto che la nostra lingua (così come moltissime altre) si è plasmata ed è evoluta con il passare dei secoli. Inoltre, soprattutto in epoche passate, questa attenzione nei confronti del "diverso" non era contemplata. Addirittura, in alcuni periodi storici molto bui, ciò che non rispecchiava determinati standard veniva letteralmente escluso dalla società: di certo non c’era interesse nel creare delle espressioni ad hoc che riflettessero il concetto di tolleranza.


Cosa è cambiato?

L’Europa è determinata a introdurre un linguaggio inclusivo e tollerante. C’è chi parla di dittatura in tal senso, forse perché non è in grado di scardinare delle abitudini ormai ben radicate. Sì, perché la lingua altro non è che un insieme di consuetudini e convenzioni cristallizzate utilizzate per comunicare, ma non si tratta di niente di immutabile o statico.

L'esempio più lampante? Il latino. La lingua italiana è la "pronipote" di questo meraviglioso sistema linguistico ora considerato morto, così come lo sono spagnolo, portoghese, rumeno e le altre lingue romanze. Probabilmente, all’epoca nessuno aveva deciso a tavolino di modificare il latino e di ramificarlo in numerosi sottoinsiemi, ma il risultato è una bellissima e tangibile dimostrazione di diversità.




Il genere

Già da qualche anno, l’attualità ci propone un rebus che non siamo ancora riusciti del tutto a sciogliere: come includere in un discorso tutti i generi esistenti? L'italiano, ahimè, nonostante il lessico raffinato e le forme eleganti, la varietà nella morfologia e l'elasticità della sintassi, prevede una netta linea di demarcazione tra il genere maschile e femminile nelle forme singolari, ma non in quelle plurali né in presenza di generalizzazioni (medico). A volte si usano entrambe le forme (Care colleghe, cari colleghi), nella lingua scritta si cerca di aggiungere entrambi i suffissi (collaboratrici/ori), per un periodo sono state in voga le versioni @ e * (poi ampiamente criticate e ormai quasi desuete), mentre adesso è il turno dello schwa (ə). Questa nuova soluzione proposta dalla sociolinguista Vera Gheno, che per anni ha collaborato con l'Accademia della Crusca, è un simbolo fonetico che si distingue dall’asterisco e dalla chiocciola per la sua possibilità di essere pronunciato. Lo schwa corrisponde infatti a un suono vero e proprio, qualcosa a metà tra una “e” strozzata e l’unione di tutte le vocali.


Negli ultimi tempi abbiamo inoltre assistito a un dibattito che si è aperto sul palco del Festival di Sanremo, relativo alla legittimità di utilizzare la forma femminile di un termine cristallizzato al maschile per entrambi i generi. Ad aprirlo è stato per altro una donna, Beatrice Venezi, che ha rimarcato la necessità di porre l’accento sulla parità di genere intesa nella sua sostanza, senza soffermarsi sulle formalità. Il direttore d’orchestra, così come intende essere chiamata, ha affermato che ciò che conta davvero quando si esercita un mestiere sono preparazione e talento, mentre il resto ha una rilevanza marginale.


Inoltre, parlando di inclusività, non posso di certo tralasciare i traguardi tagliati dalla comunità LGBT+ in merito a una rivisitazione del concetto binario di maschile/femminile, ormai obsoleto. Anche per queste categorie il dibattito sui suffissi è ancora aperto, dal momento che non esistono ancora delle opzioni consacrate e universalmente accettate. Lo schwa potrebbe essere un inizio?


Colore della pelle, disabilità e forma fisica

C’è stato un tempo in cui anche per gli esseri umani veniva utilizzata la parola “razza”, proprio come per gli animali. Per fortuna, ce lo siamo ormai lasciato alle spalle. Anzi, esprimere il concetto di "razza" nei confronti di una persona è considerata una profonda mancanza di rispetto, e in alcuni casi è addirittura un atto punibile dalla legge. Il disprezzo per persone che mostrano delle caratteristiche somatiche “diverse” da quelle della classe egemone è però tuttora presente in moltissime espressioni decisamente radicate, alcune intese in senso ironico e altre un po’ meno. Ammesso che si ritenga necessario precisare tali dettagli all'interno di un discorso, quali sono le soluzioni ammesse? Per fare un esempio: sicuramente, il termine negro, nonostante le sue connotazioni storiche, possiede accezioni prettamente negative. Il dibattito tutt’ora aperto è quello che vara la neutralità delle forme di di colore e nero.


Attualmente, nessuna di queste proposte è stata ancora accolta in via definitiva. Ciò che però ha raggiunto un consenso unanime è la necessità di utilizzare la parola persona prima di qualunque attributo. E questo vale anche per chi desidera parlare di condizioni di disabilità: sono infatti da preferirsi espressioni come persona autistica, persona disabile, persona sorda e via discorrendo, utilizzando quindi i termini “incriminati” come aggettivi e non come sostantivi (autistico, disabile, sordo).


Un altro bellissimo esempio di linguaggio inclusivo è quello relativo alla body positivity. Dopo decenni di canoni estetici a dir poco rigidi, finalmente la società e le nuove generazioni sembrano pronte ad accettare corpi variegati, quindi è il momento di allenare anche il nostro linguaggio ad aprirci in maniera neutra e tollerante. Con il loro libro “Belle di faccia”, Chiara Meloni e Mara Mibelli ci parlano della necessità di chiamare le cose con il proprio nome. Se una persona è grassa, allora che grassa sia. Via gli eufemismi come robusta, paffutella o altri vezzeggiativi: uno step successivo rispetto a quello che era stato l'apripista di questo movimento, ovvero quello che contemplava l’utilizzo del termine curvy.


Ma quindi, noi articolisti, copywriter e traduttori come ci dovremmo comportare?

Tutto ciò di cui ho parlato finora è sicuramente importante nella vita quotidiana di ogni singolo individuo, ma lo è ancora di più per chi con la lingua ci lavora. Se si parla di traduzione, specialmente da lingue come l'inglese, dove i generi per lo più non sono specificati, è necessario scegliere una forma italiana che sia più inclusiva possibile. Spesso, però, questa forma è quella più cacofonica esistente e non è adatta a tutti i tipi di testo. Non sarebbe infatti bello leggere in un testo pubblicitario un infinito alternarsi di doppie forme, così come non sarebbe possibile in un adattamento cinematografico, mentre magari in un comunicato stampa o in un testo tecnico non costituirebbe un problema.


Quello del genere è solo un esempio, ma lo stesso discorso vale per tutti gli altri ambiti elencati in questo articolo. Un bravo linguista deve essere in grado di esprimere i propri concetti cercando di rimanere esterno ai giudizi, e per riuscirci è necessario che conosca in maniera talmente approfondita la propria lingua da poter ricorrere a qualsiasi tipo di stratagemma, quando necessario. Una delle possibilità è quella di utilizzare la forma impersonale, per esempio. Nel caso in cui, invece, si tratti di altre forme di inclusività, è importante consultare delle fonti attendibili per comprendere a che punto sia la ricerca in quel determinato campo, al fine di servirsi sempre delle espressioni più adeguate.


Sembra facile a leggersi, ma non lo è in pratica. Spesso bisogna confrontarsi con lessici specifici, numero di caratteri limitato, linee guida, impatto sul lettore, glossari decisamente poco elastici e deadline che non lasciano spazio alla fantasia. Cosa fare in questi casi? La risposta è sempre la stessa: pratica, pratica, pratica. Anche la lettura è una fedele alleata, così come lo è rimanere sempre aggiornati in merito ai temi di attualità. Questi metodi consentono sia di incrementare le proprie capacità espressive, sia di conoscere quali sono i modi di esprimersi più politically correct in un dato momento storico, nonché di evitare irrimediabili gaffe con i clienti!


Aprire la mente al nuovo è un processo che consente di essere plastici nei confronti della propria professione, ed è un aspetto davvero importante se questa ha a che fare con la cultura e con la scrittura. Un approccio attento, inclusivo e tollerante al nostro mestiere non serve solamente a consegnare un lavoro ben elaborato, ma anche a educare noi stessi e chi ci circonda alla diversità, anche in questa delicata fase di sperimentazione.

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